La nuova discografia creativa/9 – Uplovers

29 10 2008

Lo ammetto. Quando mi metto a parlare di cose italiane, o sono sciovinista e patriottico all’eccesso (spinto da una sorta di rivalsa nei confronti del mio provincialismo angloamericanofilo) oppure ipercritico (che poi è quando il mio provincialismo angloamericanofilo mi stende senza darmi il tempo di reagire). Insomma, il giudizio non è mai del tutto sereno.

Oggi cercherò di fare del mio meglio. Perchè si parla di una realtà italianissima, Uplovers. Spin-off dell’italianissimo Downlovers, sito che – in estrema sintesi – permette di scaricare qualunque canzone  in cambio della visione di uno spot pubblicitario. Il tutto partorito da Kiver, realtà leader in Italia nella digitalizzazione di cataloghi musicali e nella loro distribuzione online.

Beh, ora che abbiamo fatto le presentazioni, vediamo come funziona Uplovers e perchè è nuova discografia creativa. Uplovers si inserisce nel filone dei siti di social scouting come Sellaband e Slicethepie. Le band si registrano e caricano sul sito la loro musica. Gli utenti la ascoltano e, se registrati, possono scaricarla. Classifiche di pubblico e critica selezionano le band migliori. Fine.

A differenza di  quanto accade in Sellaband e Slicepie, infatti , manca la possibilità di sostenere finanziariamente una band, dando le possibilità alle migliori di entrare nel mercato discografico dalla porta principale. Una scelta evidentemente dettata dalla prudenza e, soprattutto, dal fatto che Uplovers si rivolge  esclusivamente – a differenza dei due siti sopracitati – al mercato interno delle band e degli ascoltatori. Una scelta autarchica che se da un lato mi consola – non sono il solo sciovinista patriottico – d’altra parte mi amareggia.  Perchè un bel sito come questo non ha l’ambizione di travalicare i confini della musica italiana? Ma soprattutto: perchè la musica italiana ha ancora bisogno di protezionismo?





LaLa, tra Itunes e peer2peer

22 10 2008

LaLa è Itunes ma anche Peer2peer. Un po’ come il Partito Democratico, per intenderci. Un ibrido che, se da un lato appare perfettamente logico nella sua idea un po’ democristiana per cui sono gli estremisti che tracciano il solco, ma sono i mediatori che ne raccolgono i frutti, d’altra parte rischia – per la sua mancanza di un’Idea forte – di farsi fregare da destra e da sinistra.  Mi spiego. La premessa è del tutto logica: come già ha avuto modo di dire Sua Maestà Steve Jobs, solo il 3% delle canzoni che girano sugli Ipod è scaricata da Itunes Music Store. Che vuol dire, in soldoni, che il 97% preferisce scaricare musica gratuitamente piuttosto che pagarla 99 centesimi. Oppure – come hanno pensato i creatori di LaLa – che 99 centesimi sono un prezzo piuttosto alto per una canzone. E che, in fondo, non sarebbe una cattiva soluzione quella di provare a creare un negozio online di musica digitale che introietti ( come mi piace scrivere queste parole complicate) (ancora meglio sarebbe sussuma) il principio del peer to peer dentro Itunes

Il risultato è, per l’appunto, LaLa. Vi registrate, gratis. Condividete tutti i vostri mp3. Vi potete ascoltare per una volta sola tutte le canzoni che gli altri utenti registrati – tra cui tutte le etichette major e moltissime indie – hanno messo su LaLa, gratis. Ve le potete riascoltare, pagando 10 centesimi. Ve le potete portare a casa, ed eventualmente masterizzare, pagandone 89 (che remunereranno anche etichette ed artisti).

Mia opinione personale? Non funzionerà. Se voglio ascoltarmi una canzone in streaming ho l’imbarazzo della scelta tra Last.fm, Seeqpod, Songza, che fra l’altro – è il caso di Last.fm, ad esempio – offrono anche molti altri servizi, tipo la vendita dei biglietti dei concerti e il merchandising. Se voglio comprare una canzone vado su Itunes Music Store o, tra poco, mi compro uno dei cellulari che mi danno accesso al catalogo online delle major sul modello “prezzo fisso (nascosto nel prezzo del telefono) e mangi quanto vuoi”. E se invece voglio della musica gratis – ça va sans dire – ho Emule e soci.





Comes with music: la fine del P2P?

15 10 2008

Music on your phone. Messo sulla copertina di un Economist in tempo di crisi economica, è un titolo che fa un po’ effetto. Ma se anche il prestigioso settimanale inglese – pur tra l’incudine delle elezioni americane e il martello della crisi finanziaria – dedica un editoriale ed un articolo a Nokia Comes With Music, vuol dire che sta succedendo qualcosa di grosso.

Cross subsides. Sussidi incrociati. Ti regalo il rasoio per farti comprare le lamette. Ti regalo tutta la musica che vuoi per farti comprare il telefono. Stanno andando tutti in questa direzione: Nokia, Sony Ericsonn con il programma PlayNowPlus, la francese Orange, la danese TDC. Come previsto e descritto da Chris Anderson nel suo articolo “Why free is the future of business”, uscito qualche mese fa su Wired (e che vi linko).  “La scomoda verità – scrive per l’appunto l’Economist – è che oggi moltissima gente, perlopiù giovane, si aspetta che la musica sia gratis. L’industria, forse ha trovato il modo di sostenere quest’illusione continuando (con le royalties sui telefoni venduti, ndr) a farsi pagare”.

Leggo e rileggo quest’ultima frase e nella testa mi rimbomba una domanda: e se questo modello funzionasse? Se costituisse definitivamente un argine allo scambio di file musicali mediante peer 2 peer (come nel caso del crollo dei download illegali di In rainbows dei Radiohead, citato da Wired e ripreso da Gabriele Lunati sul suo blog)? Come si comporterebbero, ad esempio, le case di produzione cinematografiche? E quelli di videogiochi? Forse sono io che vedo barcollare qualche tessera del domino di troppo. Ma forse siamo veramente all’inizio di una nuova era.





October comes with music

10 10 2008

 

 

 

 

 

Dai, sono quasi stato di parola, settimana più settimana meno. Detto tra noi: me ne sarei stato volentieri in vacanza ancora per un bel po’, almeno per quanto concerne la mia para-professione di blogger. Ma c’è la crisi finanziaria. Che tra qualche mese, prevedibilmente impatterà sull’economia reale. C’è chi dice sui piccoli, mediante quella cosa chiamata credit crunch  (che sembra una merendina, ma in realtà è il rumore della tenaglia delle banche sui gioielli di famiglia di chi gli chiedera dei soldi). C’è chi dice ai grandi colossi impastoiati fino al collo con la grande finanza, con una preferenza particolare per quelli già agonizzanti di loro.

Immagino che abbiate capito, no? E’ come se nella grande battaglia tra l’Impero Galattico delle major e la piccola ribellione della nuova discografia creativa e delle nuove professioni musicali, si fosse inserito un terzo incomodo, la mano invisibile del mercato che chiude il rubinetto dei soldi. Un terzo incomodo che accelera tremendamente la resa dei conti.

Dovessi scommettere due euro, la mia personalissima sensazione è che potete tirar fuori il fazzoletto e fare ciao ciao che qualche major – volete anche sapere quale? Un indizio: inizia con la E –  ci saluterà. In tempi di ristrettezze economiche bisogna eliminare il superfluo. Per i grandi gruppi dell’entertainment oggi il superfluo si chiama discografia. Per i consumatori, invece, è superfluo comperare la musica che si può avere gratis. Altri due euro me li giocherei sul proliferare di piccole e grandicelle piattaforme di autoproduzione, autodistribuzione ed autopromozione sul modello di Sellaband, Slicethepie e Last.fm, tanto per dirne tre. E già che ci sono mi giocherei due euro sull’affermazione e sulla proliferazione del modello del celestial juke box lanciato da Nokia con Nokia Comes With Music (oggi disponibile solo in Gran Bretagna) che offre, a chi acquista un cellulare modello 5130, la possibilità di scaricare tutta la musica che vuole per un anno. E di tenersela anche se deciderà di non rinnovare l’abbonamento (dimenticavo: abbonamento che nel primo anno è nascosto nel prezzo del telefonino, 130 Sterline). Tutte le major- che riceveranno una royalty per ogni cellulare venduto – hanno aderito. Anche Sony che, si vocifera, presto offrirà un servizio simile per i suoi cellulari. Così come Apple del resto. E, infine, come già da un po’ fa Verizon Wireless in America.





Settembre

30 07 2008

Ok, lo ammetto.  Un po’ più di regolarità non guasterebbe a sto blog. E’ che ci sono dei periodi, lavorativi e personali. In cui proprio non riesco a metterci la testa. Questo è uno di quei periodi. Per fortuna venerdì si chiude e si va in ferie. Noi ci rivediamo a settembre, ok?





Radiohead e Last.fm, il secondo arcobaleno

8 07 2008

Questa mi mancava. L’altro giorno, mi è arrivato via mail un comunicato stampa di Last.Fm, in cui si annuncia l’accordo tra il sito ed i Radiohead per l’inizio della distribuzione gratuita e in streaming on demand di “In Rainbows”. Prima riflessione: “Uau, se mi mandano i comunicati stampa vuol dire che mi leggono e che (mi asciugo una lacrimuccia) mi considerano influente”. Seconda riflessione: “Cazzo, non sono per niente sul pezzo, se per sapere di una simile iniziativa c’è bisogno che mi dia la sveglia chi questa iniziativa l’ha realizzata”. Terza riflessione: “E ora che mi hanno mandato il comunicato stampa, ne parlo? O faccio la figura di quello che tu gli mandi il comunicato stampa e lui ti cuce la marchetta su misura?” Quarta riflessione: “Scendi sulla Terra, Francesco. Tutto quello che racconti lo leggi altrove, su altri siti e su altri blog. E altrove, dove sono molto più influenti, svegli e marchettoni di te, arrivano i comunicati stampa.” 

Fine delle riflessioni onaniste. Concentriamoci sul pezzo. Non che non sia preparato del resto. Di Last.fm ne avevo già parlato. E riguardo ai Radiohead, beh…poco cambierebbe se sto blog si chiamasse Rainbownomics.

I fatti, prima di tutto. Da qualche giorno è possibile ascoltarsi In Rainbows su Last.Fm. In streaming e gratis. Direte: sti cazzi. L’hanno regalato dal loro sito, l’hanno messo in vendita su Itunes e persino nei negozi di musica, se volete potete pure scaricarvelo con il vostro peer2peer preferito? Chi volete si connetta a internet per ascoltarlo in streaming. In altre parole: a che pro? Beh, vi basti sapere – copio testuale dal comunicato stampa– che nelle prime 12 ore di pubblicazione, In rainbows ha fatto registrare circa 22.000 ascolti complessivi, quasi uno ogni 2 secondi.

Immaginiamo che questa media cali – seppure Last.Fm ha 22 milioni di utenti registrati. E in crescita – e che gli ascolti medi di un anno si decimino (nota per il redattore del comunicato stampa: tra un anno i dati veri, eh…). 2.200 ascolti in 12 ore, sono 4.400 ascolti in 24 ore, 132.000 al mese, 1.584.000 all’anno. Numeri pazzeschi, in grado di veicolare le canzoni di In Rainbows tanto quanto potrebbe fare MTV. Anzi, forse anche di più, nel lungo periodo.

Tenete infine conto di una cosa non esattamente irrilevante: per ogni ascolto di ogni brano, l’artista senza etichetta – e i Radiohead sono senza etichetta – che si iscrive all’ Artist Royalty Program riceve una piccola somma di denaro. Fossero anche 10 centesimi di Euro a canzone (non so, sparo), i Radiohead riceverebbero – sempre nell’ipotesi della decimazione degli ascolti – 158.400 Euro all’anno facendo ascoltare liberamente la loro musica.  

(nella foto, Thom Yorke si strugge: “E ora come cazzo li spendo tutti sti soldi?”)





La nuova discografia creativa/8 Top Spin

3 07 2008

Ci sono quattro daterelli che dicono molto su dove sta andando la discografia. Secondo un rapporto della BPI (British Phonographic Industries, la Confindustria della musica inglese) tra il 2006 e il 2007 i ricavi da fonti “addizionali” (pubblicità, colonne sonore, suonerie) sono cresciuti del 14%, più precisamente di 242 milioni di Dollari, arrivando a coprire l’11% delle entrate delle etichette di Sua Maestà. Due: grazie principalmente alla pubblicità, le entrate relative alla musica distibruita gratis sono cresciuti del 56%. Tre: più dell 85% dei singoli sono venduti in formato digitale. Quattro: il 95% degli album, invece, sono venduti ancora nel formato tradizionale del cd.

Non vorremmo essere nei panni di chi si trova a dover prendere decisioni a partire da quei dati. Certo: emerge perlomeno un’evidenza: che su internet si vendono le canzoni, mentre gli album si comprano ancora nei negozi. Ma le vendite degli album, nel loro complesso, tendono inesorabilmente a calare, erose dal Peer2peer. E in quel 5% di album comprati online non ci sono i clamorosi successi commerciali di Radiohead e Nine Inch Nails. Che, val la pena ricordarlo, nella loro distribuzione digitale non si sono avvalsi di alcuna etichetta discografica.

Facciamo un po’ d’ordine. L’album diventa sempre più un peso per le etichette, laddove gli hit singles diventano sempre più una fonte di reddito importante. Mentre, parallelamente, gli artisti che “fanno da soli” realizzano notevoli profitti proprio a partire dagli album. 

Proviamo a immaginare uno scenario – non troppo improbabile, se ci pensate – in cui le major non producono più album, ma solo singoli. Che succederebbe? Probabilmente, uscirebbero dal giro della discografia di massa molti artisti magari bravissimi, ma privi della capacità di creare tormentoni.  Aumenterebbero esponenzialmente i cloni di Radiohead e soci. E alla fine del terremoto una bella feritoia nel suolo separerebbe l’industria musicale dai suoi artigiani, le multinazionali dalle piccole imprese, i prodotti discografici di massa dalle nicchie.

Non facciamo i romantici: per molte band un simile scenario equivarrebbe ad una catastrofe. Per tre motivi: perchè non tutti hanno lo zoccolo duro di Radiohead e Nine Inch Nails. Perchè non tutti, come Radiohead e Nine Inch Nails, hanno alle spalle 20 anni di massicci investimenti di Emi e Interscope per tirar su quello zoccolo duro. E perchè non tutti, come Radiohead e Nine Inch Nails, hanno in dotazione – insieme alla vena artistica – il fiuto degli imprenditori. Ed hanno bisogno che qualcuno lo faccia al posto loro.

Ecco quindi che si aprono praterie per realtà imprenditoriali nuove, difficilmente definibili come “discografiche”.  Che non producono musica. Ma che, più semplicemente, sono specializzate in quei due o tre step che vanno dal marketing alla distribuzione. Oggi come oggi, il caso più interessante è quello della Top Spin, fondata e comandata dall’ex Ceo di Yahoo Music Ian Rogers. Che cosa fa Top Spin? Semplicemente aiuta la band vendere musica a suoi fans e ad acquisirne di nuovi Senza mettere il suo marchio da nessuna parte e incassando in cambio una percentuale che Rogers definisce “ben al di sotto del 20%”. Il tutto, personalizzando al massimo la strategia in funzione dell’artista e della sua audience potenziale, fedele al motto “ci sono tanti modi per vendere musica quante sono le band”.

Attualmente sono tre gli artisti in mano a TopSpin, tutti fuoriusciti da major e super-indie. I Dandy Wahrols,  che offrono ai propri fan  una sottoscrizione annuale da $35 che include tutto ciò che produrranno, oltre a benefit per tutti (cd e poster) e premi per pochi (un pedale per chitarra della band, ad esempio). E poi i Jubilee, band formata da ex membri di Nine Inch Nails e Queens of the Stone Age, che offre una sottoscrizione annuale da $20 che comprende tutto (dalle foto, ai live recordings, filmati) e download di ogni brano a $0,85. E Josh Rouse, per il quale l’abbonamento costa 30$ e che punta in particolare su una serie sterminata di Ep live e studio.





Buldra e il paese dei “Faso tuto mì”

30 06 2008

“In America un ragazzo ha come massima aspirazione quella di lavorare per una multinazionale. In Italia, sogna di mettersi in proprio”. Questo l’esempio usato da un amico (italiano) per spiegare alla moglie (americana) la differenza tra noi e loro. Ok, la situazione è un filino più complessa (parlando di “noi”, ovviamente) e l’amico, forse, ha una visione dell’Italia un po’ troppo tendente a nordest. In ogni caso, stiamo parlando di un paese che ha circa 10 imprese ogni 100 abitanti, quando la media europea è – spanna più spanna meno – circa la metà. Ci piace fare i padroncini a casa nostra, dai.

La musica non fa eccezione, ovviamente. Se ci fate caso, in buona parte del rock indipendente nostrano ritroviamo non da ieri i geni dell’autoimprenditorialità. Elio e le storie tese, ovviamente. Ma non solo. Ricordo un Manuel Agnelli furioso per il trattamento riservato agli artisti italiani all’Heineken Jammin Festival che si rimbocca le maniche e si inventa un festival itinerante come il Tora!Tora! Ricordo il Consorzio Produttori Indipendenti e i Dischi del Mulo dei CSI. Casa Sonica dei Subsonica. E la Jestrai dei Verdena, amministrata dalla madre dei Ferrari Brothers. Tante bozze di rapporto diretto artisti-pubblico. Qualche anno luce prima dell’arcobaleno di Mr. Thom Yorke e dei suoi compari.

Certo è che “In Rainbows” è un bel banco di prova per il paese del “faso tuto mì”. Mi sbaglierò, o forse  essere tenutario di un blog che parla di nuove forme di discografia inquina il mio personalissimo campione: ma mi pare di notare che tra musicisti si parli sempre meno di musica e sempre più di come promuoverla e venderla. Che non è tanto un segno del diminuito valore dell’arte, bensì del fatto che i musicisti si percepiscono sempre meno come dipendenti ( o potenziali tali) di qualcuno e sempre più imprenditori di sè stessi.

Un esempio? Davide Buldrini, in arte Buldra, è un musicista con cui mi sono conosciuto proprio tra le pieghe dei commenti di questo blog. E’ uno di quei tanti che – dotati di un buon talento musicale e compositivo e a scapito di una “vita normale” – ci provano e ci riprovano. A diventare famosi, ovviamente. A firmare con un major, riovviamente. Ora non più. Cito dal suo sito: “Mi propongono a tutte le major esistenti. Bisogna limare, tagliare, potabilizzare i brani. Non ne sono convinto. Non perché non voglia farlo, ma perché non riesco a capire se ne valga la pena. Mi sembra che l’obiettivo di volere un contratto ed una produzione major non sia più così importante. Nella mia vita. Mi sembra che quell’obiettivo scricchioli. Mentre tutto il resto vada a gonfie vele. Intuisco che, forse, non ha più senso firmare per una major. Ogni volta che poso gli occhi su un cantante pop, su una trasmissione televisiva, su un video di MTV, non mi riconosco più. Non mi vedo. Congedo chi di dovere. E quello che avrei dovuto investire per dare il colpo di grazia ai signori dei dischi, lo investo in ore di studio con Mauro Andreolli”.

L’album di Buldra è distrituito in modalità “freemium” (free + premium), esattamente come “In Rainbows”. Esclusivamente dal suo sito. “Paga quanto vuoi” per il download. 10 Euro per la versione deluxe (dalle sembianze di un quadernino, in 100 copie). Si chiama “Egoismo Standard”. Più che un titolo, un manifesto programmatico.

 





Cento siti da cui scaricare musica gratis. Legalmente.

25 06 2008

Pare che quel che finora si è detto su sto blog fosse solo la punta di un iceberg. Che ne dite, ce lo facciamo un giro sott’acqua? Mi ci vorranno mesi per provare e recensire tutto, ma ce la farò. Se qualcuno di voi volesse darmi una mano può postare le proprie opinioni qua sotto. Io non mi offendo mica…

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La cassettina degli Hormonauts, l’ “arcobaleno” di Girl Talk

23 06 2008

Forse è semplicemente perchè dietro ci sono delle persone in carne ed ossa, però è singolare come il tipo di musica proposta rifletta spesso e signficativamente le modalità di approccio ai nuovi modelli di business musicale. Mi spiego: è un caso che gruppi sulla frontiera dell’innovazione musicale come Radiohead o Nine Inch Nails si siano lanciati per primi sulla rivoluzionaria distribuzione gratuita della loro musica? è un caso che il mecenatismo abbia ottenuto ottimi risultati prevalentemente in una nicchia caratterizzata da (relativamente) pochi e affezionatissimi friutori come quella dell’ alternative country americano di Kristin Hersh e Jill Sobule? E che mi dite delle innovazioni nella registrazione dei concerti, portate avanti da due live band come Pearl Jam e Elio e le storie tese

Spostandoci dalla frontiera e camminando verso le retrovie dei secondi arrivati non è che le cose cambino un granchè. D’altra parte, come dice mia nonna, chi si assomiglia si piglia. Così, tanto per dire, ecco che gli italiani Yuppie Flu, che ai Radiohead (musicalmente parlando) devono molto , distribuscono Fragile Forest utilizzando (in verità un po’ annacquato) quello che ormai potremmo definire come il “metodo arcobaleno” del paga quanto vuoi. Lo stesso – come potete leggere dal titolo – fa il guru dell’elettronica Greg Gillis, altrimenti noto con lo pseudonimo di Girl Talk: la versione in Mp3 del suo nuovo album “Feed the animals” la potete pagare quanto volete, anche zero. Se gli date più di 5 Euro vi da anche i file Flac. Se gli date più di 10 Euro, quando uscirà, vi spedirà a casa pure il cd. Anche lui, come gli Yuppie Flu – e a differenza di Radiohead e Nin – fa tutto con la sua etichetta Illegal Art. Ah, le nuove generazioni…

L’altra faccia della medaglia di chi usa internet, è quella di chi – più vintage – usa i concerti. In questo caso, il gusto per il feticcio, sebbene corroborato da una buona dose di innovazione tecnologica, cresce esponenzialmente. Vale per i Pearl Jam (in bilico tra i vinili del Ten Club e i live che diventano suonierie per cellulare) e per gli Elii (tra cd brulè e chiavette usb). Vale anche per gli Hormonauts che hanno recentemente combinato l’anima vintage e quella tecnologicamente avanzata in un prodotto parecchio originale. Si tratta del supporto del nuovo disco dal titolo “Spanish Omelette”: una musicassetta che funziona come tale, ma anche come lettore mp3. E che sarà in vendita quasi solamente ai loro concerti.