
Ci sono quattro daterelli che dicono molto su dove sta andando la discografia. Secondo un rapporto della BPI (British Phonographic Industries, la Confindustria della musica inglese) tra il 2006 e il 2007 i ricavi da fonti “addizionali” (pubblicità, colonne sonore, suonerie) sono cresciuti del 14%, più precisamente di 242 milioni di Dollari, arrivando a coprire l’11% delle entrate delle etichette di Sua Maestà. Due: grazie principalmente alla pubblicità, le entrate relative alla musica distibruita gratis sono cresciuti del 56%. Tre: più dell 85% dei singoli sono venduti in formato digitale. Quattro: il 95% degli album, invece, sono venduti ancora nel formato tradizionale del cd.
Non vorremmo essere nei panni di chi si trova a dover prendere decisioni a partire da quei dati. Certo: emerge perlomeno un’evidenza: che su internet si vendono le canzoni, mentre gli album si comprano ancora nei negozi. Ma le vendite degli album, nel loro complesso, tendono inesorabilmente a calare, erose dal Peer2peer. E in quel 5% di album comprati online non ci sono i clamorosi successi commerciali di Radiohead e Nine Inch Nails. Che, val la pena ricordarlo, nella loro distribuzione digitale non si sono avvalsi di alcuna etichetta discografica.
Facciamo un po’ d’ordine. L’album diventa sempre più un peso per le etichette, laddove gli hit singles diventano sempre più una fonte di reddito importante. Mentre, parallelamente, gli artisti che “fanno da soli” realizzano notevoli profitti proprio a partire dagli album.
Proviamo a immaginare uno scenario – non troppo improbabile, se ci pensate – in cui le major non producono più album, ma solo singoli. Che succederebbe? Probabilmente, uscirebbero dal giro della discografia di massa molti artisti magari bravissimi, ma privi della capacità di creare tormentoni. Aumenterebbero esponenzialmente i cloni di Radiohead e soci. E alla fine del terremoto una bella feritoia nel suolo separerebbe l’industria musicale dai suoi artigiani, le multinazionali dalle piccole imprese, i prodotti discografici di massa dalle nicchie.
Non facciamo i romantici: per molte band un simile scenario equivarrebbe ad una catastrofe. Per tre motivi: perchè non tutti hanno lo zoccolo duro di Radiohead e Nine Inch Nails. Perchè non tutti, come Radiohead e Nine Inch Nails, hanno alle spalle 20 anni di massicci investimenti di Emi e Interscope per tirar su quello zoccolo duro. E perchè non tutti, come Radiohead e Nine Inch Nails, hanno in dotazione – insieme alla vena artistica – il fiuto degli imprenditori. Ed hanno bisogno che qualcuno lo faccia al posto loro.
Ecco quindi che si aprono praterie per realtà imprenditoriali nuove, difficilmente definibili come “discografiche”. Che non producono musica. Ma che, più semplicemente, sono specializzate in quei due o tre step che vanno dal marketing alla distribuzione. Oggi come oggi, il caso più interessante è quello della Top Spin, fondata e comandata dall’ex Ceo di Yahoo Music Ian Rogers. Che cosa fa Top Spin? Semplicemente aiuta la band vendere musica a suoi fans e ad acquisirne di nuovi Senza mettere il suo marchio da nessuna parte e incassando in cambio una percentuale che Rogers definisce “ben al di sotto del 20%”. Il tutto, personalizzando al massimo la strategia in funzione dell’artista e della sua audience potenziale, fedele al motto “ci sono tanti modi per vendere musica quante sono le band”.
Attualmente sono tre gli artisti in mano a TopSpin, tutti fuoriusciti da major e super-indie. I Dandy Wahrols, che offrono ai propri fan una sottoscrizione annuale da $35 che include tutto ciò che produrranno, oltre a benefit per tutti (cd e poster) e premi per pochi (un pedale per chitarra della band, ad esempio). E poi i Jubilee, band formata da ex membri di Nine Inch Nails e Queens of the Stone Age, che offre una sottoscrizione annuale da $20 che comprende tutto (dalle foto, ai live recordings, filmati) e download di ogni brano a $0,85. E Josh Rouse, per il quale l’abbonamento costa 30$ e che punta in particolare su una serie sterminata di Ep live e studio.