Che ne dite, li facciamo un paio di conti in tasca ai Radiohead? No, perchè sono usciti alcuni dati sulle vendite online di “In rainbows” e visto che se ne parla da un bel po’ di questo esperimento – o rivoluzione, o schifosa marchetta, fate voi – non sarebbe male capire se e come ha funzionato.
Allora. Stando a quanto pubblicato da comScore, azienda leader nella misurazione di tutto ciò che fa mercato nel mondo digitale, è andata benino. Non benissimo, ma neanche male. A un mese dall’annuncio dell’iniziativa, circa 1,2 milioni di persone hanno visitato il sito dei Radiohead e una significativa percentuale di questi – lo studio non dice quanti – ha scaricato l’album. Facciamo cifra tonda: un milione. Di questo milione, 360.000 persone hanno pagato qualcosa, in media 6 Dollari, poco più di 4 Euro, poco meno di 8.000 delle care vecchie lire. Tutti gli altri, circa 640.000, sono invece i cosiddetti freeloader: quelli che, cioè, hanno tirato fuori la carta di credito per pagare 65 centesimi di Euro di costi di transazione e nella casellina del “pay what you want” hanno scritto, temerariamente, zero. A questi si aggiungano i circa 500.000 download stimati dai siti p2p. Mancano invece i dati sulle vendite del cofanetto. Si era scritto di circa 700.000 prenotazioni, cifra che alla luce di questi dati, sembra quantomeno irrealistica. Questi i fatti. Ora un po’ di opinioni.
1) L’incremento nelle vendite rispetto al precedente lavoro dei Radiohead – Hail to the thief, 300.000 copie vendute nel medesimo periodo – c’è stato, ma non così sensibile come ci si aspettava, tenendo conto anche del fatto che erano circa tre anni che si aspettava un nuovo lavoro della band. Elasticità della domanda al prezzo piuttosto bassa, quindi. Tradotto: una buona percentuale di chi ha pagato il download di “In rainbows”, avrebbe probabilmente comprato anche il cd ai canonici 18 Euro.
2) I freeloader sono circa 3 volte i payloader. Anche qui, niente di nuovo sotto il sole.
3) A spanne i Radiohead hanno guadagnato da questa operazione circa 1.360.000 Euro. Guadagnato, esatto. Perchè non daranno neanche un tollino nè alla casa discografica, nè allo stampatore del cd e dell’artwork, nè al distributore. Tanto per intenderci, se avessero venduto 340.000 copie attraverso l’intermediazione di un’etichetta discografica e mediante la canonica distribuzione dei cd sugli scaffali dei negozi, a Yorke e soci sarebbero entrati in tasca circa 500.000 Euro. A conti fatti, un affare.
4) Confrontiamo le torte: il ricavo totale della vendita di 340.000 cd supera i 6 milioni di Euro. Quello dei download di “In rainbows”, come già detto, sta sotto al milione e mezzo. La torta è decisamente più piccola, quindi. E i Radiohead se la mangiano tutta perchè, con le attuali tecnologie, e con i mezzi finanziari a loro disposizione non hanno bisogno di anticipi per registrare, di supporti fisici per diffondere la loro musica e di qualcuno che gliela distribuisca. La risorsa scarsa – giustamente, aggiungerei – è la musica, più volgarmente il master. E quella ce l’hanno in mano Thom Yorke e soci. La band diventa un brand, una piccola impresa, e cessa di essere dipendente – in ogni senso in cui si può intendere questa parola – della casa discografica.
Una rivoluzione, quindi? Si, ma attenzione. Il vero dato rivoluzionario è che anche dandogli la possibilità di pagare quanto si vuole, la maggioranza delle persone non percepisce più la musica registrata come un bene a pagamento. L’unica fonte di guadagno possibile per vendere la musica pare essere quella di fare appello alla fede oltre la ragione dello zoccolo duro di fan. Finchè dura, ovviamente.
(dimenticavo: qui lo studio di comScore)