Musica gratis. O quasi

28 11 2007

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Se c’è un “dunque” a cui arrivare, in questa traversata nel deserto della discografia,  quello è senza dubbio la fine della musica come bene a pagamento. O la fine della musica e punto, per i più pessimisti. Inguaribili ottimisti come siamo, non prendiamo nemmeno in considerazione la seconda ipotesi. Ma con l’ultimo barlume di realismo che ci rimane, proviamo a fare le pulci alla prima. “Non ci sono pasti gratis”, mi rammenta la mia fidanzata-economista, citando il celebre slogan dei monetaristi di Chicago, ogni volta che le racconto di quel che ho scoperto in rete sulla nuova discografia creativa. E anche Chris Anderson, autore de “La coda lunga”, che attualmente sta scrivendo un saggio dall’emblematico titolo “Free” sull’economia del dono, ricorda che ciò che viene definito come gratis, quasi sempre “non lo è del tutto, ma abbastanza per dar fuoco all’immaginazione”.

Gratis o quasi gratis, ce ne sono parecchi di fiammiferi che danno fuoco all’immaginazione, nell’attuale mercato musicale. Tre casi su tutti. Due stranieri e uno a casa nostra.

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La nuova discografia creativa/3 – MySpace Records

26 11 2007

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 E’ dura parlare di come cambia l’economia della musica senza nominare MySpace. Per chi fosse tornato ieri da Marte, basti dire che è un sito di social network, che conta più di 200 milioni di iscritti e che buona parte di loro sono band o musicisti. La leggenda vuole che grazie a MySpace sia diventata famosa e ricca gente come Arctic Monkeys, Mika,  e Lily Allen, leggenda che lascia quantomeno perplessi in realtà, visto che tutti e tre gli artisti erano già sotto contratto prima di aprire la loro pagina. Sta di fatto, in ogni caso, che questa creatura di proprietà della News Corp di Rupert Murdoch sia uno dei bacini pubblicitari più ampi e vasti su cui sperimentare strategie di marketing a basso costo come ad esempio il caro e vecchio passaparola.

Tutti usano MySpace, insomma. Al punto tale che sembrava assurdo che proprio la stessa MySpace non aprofittasse del popò di potenziali acquirenti che ha aggregato per diversificare un po’ la sua attività. E infatti, MySpace due anni fa ha fondato la MySpace Records etichetta discografica indipendente. Per modo di dire, visto che tutto il lavoro, dalla fabbricazione dei cd alla distribuzione lo fa la Universal. I soldi di Murdoch. Le reti e il know how di Universal. Il bacino pubblicitario di MySpace. Potenzialmente una macchina da guerra. Potenzialmente. Perchè finora MySpace Records ha vivacchiato ai margini del mercato discografico, producendo gente come Mickey Avalon, Hollywood Undead e Kate Voegele, sconosciuta allora e sconosciuta oggi.

Perchè allora parliamo di MySpace Records? Perchè qualche giorno fa ha messo sotto contratto i Pennywise, storica punk band californiana. Il nuovo album della band uscirà il prossimo 25 Marzo e – rullo di tamburi – sarà disponibile in download gratuito. Questo grazie alla sponsorizzazione di Textango, azienda specializzata nella distribuzione di musica sui cellulari. Per poter scaricare l’album, infatti, occorrerà diventare “amici” di Textango sulla pagina MySpace dell’azienda.

Tutti contenti. I Pennywise incassano un fisso ed aumentano la loro visibilità, cosa che non guasta, soprattutto se ci si costruisce sopra un bel tour di concerti. Textango – che vende musica via sms – si fa conoscere presso il suo target di riferimento. E MySpace Records? Non pare guadagnarci molto. Se non che, zitta zitta e a costo zero, ha messo in piedi un interessante test su come si veicola la musica nel mercato discografico che viene avanti. Per le altre etichette discografiche, un ulteriore motivo per non dormire sonni tranquilli…





Spin the black circle

22 11 2007

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I nemici attaccano a turno solo nei film di Bud Spencer. Anzi, di solito aprofittano della superiorità e ti colpiscono in faccia e alle spalle. Fuor di metafora, è quel che sta succedendo al Compact Disc. Nato ormai una venticinquina di anni fa, è stato per tutto questo periodo la manna dal cielo per l’industria discografica. La pulizia del suono digitale. La possibilità di saltare da una canzone all’altra premendo semplicemente un tastino. La portabilità. I libretti con i testi. Uau. I registratori di cassa hanno tintinnato a festa: in un colpo il cd ha sostituito il disco in vinile – cosa che ha portato all’aggiornamento di milioni di collezioni di dischi al nuovo standard – e la fastidiosa (per i discografici) abitudine di copiare la musica sulle cassettine. Però, cari miei, come dice Justin Timberlake “what goes around, comes around”. Tradotto: il mondo è rotondo  e se lo metti in quel posto a qualcuno, prima o poi…

La digitalizzazione della musica che ha consentito al cd di soppiantare il vinile ha prodotto i masterizzatori, gli mp3, il file sharing e gli Ipod. Distrutto nei suoi stessi vantaggi competitivi e improvvisamente sconveniente, il Compact Disc si è risvegliato sdraiato in una cassa di rovere. E siccome la vendetta è un piatto che va gustato freddo, a dargli l’estremo saluto c’è anche Sua Antichità il Vinile, che oggi, paradossalmente, gode di ottima salute.

Le stamperie non riescono a stare dietro agli ordini. Don MacInnis, proprietario della Record Technology, afferma ad esempio che la produzione, nel 2007, sta crescendo al ritmo del 25% e che tale crescita non riguarda solo musica dance per DJ, ma tutti i generi. Anche i negozi, soprattuto quelli online come Amazon, si stanno attrezzando creando apposite sezioni per la nuova ondata di vinylmania. Ed etichette discografiche indipendenti di culto come la Matador si sono rimesse a vendere dischi in vinile con dentro un codice per scaricare dal sito lo stesso album in mp3. Patrick Amory della Matador afferma che questo programma sta avendo un “successo clamoroso”. E non si dimentichi che i Radiohead – credevate non se ne parlasse, eh? Sbagliavate – oltre al download a offerta libera hanno fatto uscire il discbox da 60 Euro con la versione vinilica di In Rainbows.

Attenzione, però. La morsa “Mp3 + vinile” sta ammazzando il cd. Ma non è detto che non possa costituire una possibile ancora di salvezza per le major discografiche.

(per un ulteriore approfondimento – che non mi si dica che non cito le fonti! – Wired ne ha parlato qui e qui)





La nuova discografia creativa/2 – Sellaband

20 11 2007

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Il mio amico Max – che di musica se ne intende e ci campa- crede che il futuro della discografia saranno i mecenati. In altre parole, se stimi un artista e vuoi che componga nuovi brani,  devi prima investirci dei quattrini. Fare cioè quel che fanno oggi le case discografiche, senza però essere una casa discografica. Direte voi: ma se non sono un miliardario, come faccio? Ottima domanda. A cui da risposta un progetto nato in Olanda lo scorso anno. Si chiama Sellaband e il suo motto –  “la casa discografica sei tu” – dice tutto. Funziona così: da una parte c’è l’artista o la band senza etichetta. Si iscrivono a Sellaband e mettono online alcuni loro brani. Dall’altra parte ci sono i believer, potenziali piccoli investitori della tua musica. Un believer può investire su una band partendo da una base di 10 Dollari. Quando la band arriva a raccolgiere $50.000, i soldi escono dalle carte di credito dei believer e vanno a finanziare la registrazione, la promozione e la distribuzione del cd. Fino a quel momento, i believer possono spostare e anche riprendersi i soldi investiti. La band e i suoi believer possono promuoversi  tra gli amici su Myspace o sugli altri siti di social network. I vantaggi per la band sono molteplici: promuovono la loro musica dentro un potentissimo aggregatore; acquisiscono contemporaneamente risorse e reputazione; si creano uno zoccolo duro di fan che verrà buono anche dopo. Anche quello dei believer è un investimento: ognuno di loro riceve delle royalties sugli spazi pubblicitari nella pagina dei propri artisti, sui loro brani scaricati dal sito e sui loro cd che riesce a piazzare nel suo personale spazio di vendita su Sellaband.

Oggi a Sellaband sono iscritti 5782 artisti, tra cui 11 che hanno già raggiunto il traguardo dei $50.000. Non solo: è notizia di ieri che Sellaband ha siglato un accordo con “The orchard” società leader mondiale nell’intermediazione digitale e nell’aggregazione di contenuti musicali sul web, che si occuperà della promozione e della distribuzione su tutte le piattaforme del mondo degli artisti Sellaband. “Si tratta di un social networking con un vero valore aggiunto”, ha spiegato il presidente e ad della società americana Greg Scholl, “una partnership eccitante tra fan e artisti che remunera questi ultimi e conferisce potere ai consumatori”.





Dopodomani/1 – Radiohead, “Twelve sessions”

16 11 2007

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Gennaio 2010

Quando mi siedo sul divanetto opposto al suo, nella hall di un grande albergo nel cuore di Londra, Thom Yorke sta torturando la fettina di limone nella sua tazza di the. Ancora più piccolo di come me lo immaginassi, ha lo sguado furbo e sornione dei giorni migliori, accentuato dall’asimmetria del suo volto, tanto strano da sembrare quasi bello.

Cinque anni fa, mentre la band stava entrando in studio, aveva rilasciato a Time le prime dichiarazioni di guerra alle case discografiche: “Mi piacciono le persone che lavorano nella mia casa discografica, ma è maturo il tempo in cui chiedersi se noi abbiamo bisogno di loro. E sì, credo ci darebbe un piacere perverso mandare affanculo questo modello di business decadente.” Due anni dopo, “In rainbows”. Il primo esperimento di bypassare le major offrendo direttamente ai fan il proprio album, acquisibile mediante un’offerta libera e facoltativa. Più della metà dei fan ne approfitto e se lo scaricò gratis. “Abbiamo fatto qualche errore. Come accade sempre, quando si sperimenta. D’altra parte, non siamo mai stati imprenditori, prima d’ora” sorride Yorke, passando a torturare la bustina di zucchero. “Eravamo convinti che bastasse scrollarsi di dosso l’immagine negativa delle major e del prezzo alto e fisso per riportare la musica registrata nel recinto dei beni a pagamento. Evidentemente non era così. La gente però spende per andare ai concerti. Il biglietto, certo, che è sempre più caro. Ma costa anche la benzina per arrivare sul posto, il mangiare, un posto dove dormire. Chiunque vorrebbe un concerto a due passi da casa. Ci siamo detti: perchè non premiamo chi lo vuole più di altri?”

Da questa idea, oggi, è nato il progetto “Twelve sessions”. Due canzoni al mese, per tutti i dodici mesi del 2010, verranno rese disponibili sul sito ufficiale della band. I fan potranno decidere quanto pagarle, da zero a infinito, sul modello di “In rainbows”. Una volta completata l’operazione d’acquisto, verrà chiesto al cliente di indicare un luogo dove vorrebbe che la band suonasse durante il tour mondiale dell’anno seguente. Vinceranno un concerto dei Radiohead – è proprio il caso di dirlo – le 50 località che, nel corso dell’anno, avranno speso più soldi per scaricare l’album. Il prezzo del concerto, per altro, varierà dai 15 Pound – o equivalente – per la prima classificata ai 30 pound per l’ultima classificata. “In questo modo”, spiega Thom, fattosi improvvisamente serio, “vorremmo premiare chi è veramente interessato al nostro lavoro di artisti. Non è giusto che chi valuta maggiormente il nostro lavoro non ne abbia niente in cambio”. Prima di congedarci, gli pongo un’ultima domanda: “Perchè dodici sessioni da due brani e non un album intero da ventiquattro pezzi?”. Sul volto di Yorke torna lo sguardo furbo di poco fa. Si volta a destra e poi a sinistra per controllare che non lo senta nessuno. Poi si avvicina e mi sussurra nell’orecchio: “Per moltiplicare l’attesa dell’evento nell’arco di tutto l’anno. E per fare più soldi. Prima ti ho detto che non siamo mai stati imprenditori. Beh, stiamo imparando”. Poi volta le spalle e se ne va. “Magari più avanti faremo uscire un cofanetto”, mi pare di avergli sentito bisbigliare.





Avvoltoi in picchiata

14 11 2007

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Concerti e merchandising: + 4%. Vendita di tracce musicali digitali: +46%. Suonerie: +86%. Vendita di Ipod: +30%. Vendita di cd: -18%.  Questi dati, raccolti e diffusi da Chris Anderson nel suo blog, fotografano perfettamente la situazione. L’industria musicale cresce, e tanto. Quella discografica tradizionale, crolla. Forse la metafora è un po’ forte, ma è evidente come la vera domanda da porsi non è se l’industria discografica così come la conosciamo sopravviverà, ma come verrà spartito il cadavere. Finora abbiamo volato basso e altissimo: basso, concentrandoci sulle esperienze autoimprenditoriali di artisti noti – Radiohead – e meno noti – Saul Williams; altissimo, raccontando di Rick Rubin e dell’utopia del celestial juke box. Che c’è in mezzo? C’è una ragnatela di organizzazioni grandi ed emergenti che sta sperimentando nuove alleanze, nuove integrazioni e nuove forme di distribuzione. Due sono i principali protagonisti: da un lato le aziende di ticketing e promozioni eventi; dall’altro i rivenditori di musica online. Trattandosi di due settori estremamente concentrati, possiamo anche chiamarli per nome. Ticketmaster e LiveNation da una parte. ITunes dall’altra.

LiveNation si è data alla discografia prendendosi – e pagando uno sproposito – il carico da dieci, la signora Veronica Ciccone in arte Madonna. La strategia di Mr. Rapino, Presidente di LiveNation – nome omen? – è quella di integrare la vendita della musica alla fruizione dell’esperienza musicale. Tu artista ti pigli un “fisso” da urlo. Però ci spartiamo assieme la torta dei concerti e del merchandising. Madonna ha accettato e se non altro questa è una garanzia che lei ci guadagnerà. Non sbaglia un colpo, la nostra quasi connazionale.

Ticketmaster e ITunes – solo negli USA – si sono inventate nei giorni scorsi un’altra strategia. Compri un biglietto di un concerto di un’artista Ticketmaster (cioè quasi tutti)? Se vai sul sito di Itunes puoi scaricare gratuitamente un sample di dieci brani di quello stesso artista, o il suo ultimo album a un prezzo decisamente scontato. Per prepararti all’evento.

Indipendentemente da come andrà un’evidenza è già chiara. Prima si facevano i concerti per promuovere i dischi. Ora si registra la musica per promuovere i concerti.





La nuova discografia creativa/1 – Magnatune

11 11 2007

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Per certi versi, “In rainbows” dei Radiohead è come il Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie. A seguirne le orme, finisci per scoprire un mondo di cui, fino al giorno prima, avevi completamente ignorato l’esistenza. Quello di chi – case discografiche, artisti, collettivi – da anni distribuisce la sua musica gratuitamente o quasi. E nel ricostruire la mappa di questo variegato universo – creativo o ingenuo, grande o piccolo, ricco o squattrinato che sia – ti chiedi se sia quello il futuro della discografica, se un giorno le più note etichette indipendenti, o addirittura le major, saranno così.
Siete pronti? Partiamo.
Il tour inzia da un ragazzone di Berkeley, California. Si chiama John Buckman ed è il fondatore di Magnatune, etichetta discografica che dal 2003 produce e distribuisce musica attraverso logiche di prezzo variabile. Il giochino è semplice: ti colleghi al sito; scegli un genere – Magnatune produce dall’ambient, al goth metal, dalla musica etnica, sino alla classica e all’elettronica – selezioni il lavoro di un’artista e te lo ascolti. Se ti piace e vuoi riascoltarlo hai due possibilità: o ti ricolleghi al sito e ripeti l’operazione; o scarichi il cd, stabilendo tu il prezzo a partire da un minimo di 5 Dollari a un massimo di 18 Dollari. “Uno si aspetta che tutti paghino 5 Dollari. In realtà il prezzo medio che i nostri clienti scelgono di pagare è di 8, 93 Dollari”, spiega Buckman in un’intervista a Usa Today.
Altra peculiarità di Magnatune è che mette sotto contratto soltanto artisti che hanno già registrato l’album. E con loro si spartisce in parti uguali i ricavi delle vendite: se paghi 8 Dollari, all’artista ne vanno 4. Perchè questo? Perchè secondo Buckman “i consumatori supportano gli artisti. Non è a loro che vogliono rubare la musica, ma alle case discografiche.” 50 e 50 anche per le licenze d’uso dei brani a scopi commerciali – più costose – e per la vendita del merchandising. Merchandising che veicola il nome e il logo dell’etichetta e non delle band, fra l’altro. Perchè Magnatune non si vergogna di essere una casa discografica, categoria oggi popolare quanto le lobby farmaceutiche. Perlomeno, vuole far credere di poterselo permettere.
Altra scelta radicale: Magnatune è un’etichetta “open source”. Lascia cioè che chiunque faccia ciò che vuole della musica che scarica: usarla, migliorarla, farne un prodotto nuovo. “Vogliamo essere il Linux del mondo musicale”, dice Buckman.
Attualmente Magnatune ha sotto contratto 258 artisti e un catalogo di 569 album e 8316 canzoni. Ammettendo che ogni album abbia venduto anche solo 1000 copie, e dando per buono il prezzo medio di circa 9 Dollari, per Magnatune fanno più di 2,5 milioni di Dollari di guadagno complessivo in quattro anni di attività, a fronte di costi che è facile immaginare bassi, se non irrisori (niente produzione, niente packaging, niente distribuzione nei negozi, niente videoclip). Non male.

Profetica, nel sito, è una paginetta intitolata “The Big Ideas”, in cui Buckman preconizza il futuro dell’industria musicale:

“Tutta la musica dev’essere libera. Esattamente come con un qualunque software.”

“Va trovato un modo per far arrivare la musica dai musicisti al loro pubblico che non sia costosa e che supporti i musicisti. Altrimenti, la diversità musicale continuerà a soffrire il sistema corrente in cui solo poche mega hits producono consistenti guadagni”.

“I musicisti devono controllare ed apprezzare il processo con cui la loro musica viene distribuita. I musicisti sono molto vicini ad iniziare una rivoluzione. E alcuni già l’hanno fatto.”

“La creatività va incoraggiata: l’attuale sistema di copyright del “tutti i diritti riservati” è troppo severo. Noi supportiamo la licenza Creative Commons del “some rights reserved”, più flessibile e permissivo”

Nel logo della Magnatune, sotto il nome dell’etichetta, c’è una frase: “We are not evil”. Non siamo il male. Domandina facile facile: secondo voi, per John Buckman, chi è il male?





“Non abbiamo bisogno di preti per parlare con Dio”

8 11 2007

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Come informa prontamente Wikipedia, Saul Williams è prima di tutto un poeta. Poi, è anche un predicatore, un musicista, un rapper e un attore. Non uno qualunque, in ogni caso. Tant’è che il suo disco in uscita – The inevitable rise and liberation of Niggy Tardust – è prodotto da Trent Reznor e mixato da Alan Moulder. Non due qualunqui, nemmeno loro.

Perchè parliamo di Saul Williams? Perchè prova anche lui a vendere la sua musica senza le intermediazioni della casa discografica. E lo fa in un modo forse più innocente dei Radiohead, ma sicuramente altrettanto radicale. Ti lascia due chanches, Saul. Se vuoi ricevere musica di migliore qualità – mp3 a 320 kbps o Flac – e se vuoi “supportare l’artista coinvolto nella creazione della musica che scarichi”, paghi 5 dollari. Se no, gratis e ti pigli i file mp3 a 192 kbps. Entrambe le possibilità prevedono, tra l’altro, anche l’invio del pdf dell’artwork e dei testi.

“Non abbiamo bisogno di preti, per parlare con Dio – dice Saul nella lettera in cui spiega questa scelta ai fan – né di telefoni per chiamare la donna che amiamo.”

Per scaricare il disco di Saul Williams, qui.





It’s up to us. E infatti…

6 11 2007

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Che ne dite, li facciamo un paio di conti in tasca ai Radiohead? No, perchè sono usciti alcuni dati sulle vendite online di “In rainbows” e visto che se ne parla da un bel po’ di questo esperimento – o rivoluzione, o schifosa marchetta, fate voi – non sarebbe male capire se e come ha funzionato.

Allora. Stando a quanto pubblicato da comScore, azienda leader nella misurazione di tutto ciò che fa mercato nel mondo digitale, è andata benino. Non benissimo, ma neanche male. A un mese dall’annuncio dell’iniziativa, circa 1,2 milioni di persone hanno visitato il sito dei Radiohead e una significativa percentuale di questi – lo studio non dice quanti – ha scaricato l’album. Facciamo cifra tonda: un milione. Di questo milione, 360.000 persone hanno pagato qualcosa, in media 6 Dollari, poco più di 4 Euro, poco meno di 8.000 delle care vecchie lire. Tutti gli altri, circa 640.000, sono invece i cosiddetti freeloader: quelli che, cioè, hanno tirato fuori la carta di credito per pagare 65 centesimi di Euro di costi di transazione e nella casellina del “pay what you want” hanno scritto, temerariamente, zero. A questi si aggiungano i circa 500.000 download stimati dai siti p2p. Mancano invece i dati sulle vendite del cofanetto. Si era scritto di circa 700.000 prenotazioni, cifra che alla luce di questi dati, sembra quantomeno irrealistica. Questi i fatti. Ora un po’ di opinioni.

1) L’incremento nelle vendite rispetto al precedente lavoro dei Radiohead – Hail to the thief, 300.000 copie vendute nel medesimo periodo – c’è stato, ma non così sensibile come ci si aspettava,  tenendo conto anche del fatto che erano circa tre anni che si aspettava un nuovo lavoro della band. Elasticità della domanda al prezzo piuttosto bassa, quindi. Tradotto: una buona percentuale di chi ha pagato il download di “In rainbows”, avrebbe probabilmente comprato anche il cd ai canonici 18 Euro.

2) I freeloader sono circa 3 volte i payloader. Anche qui, niente di nuovo sotto il sole.

3) A spanne i Radiohead hanno guadagnato da questa operazione circa 1.360.000 Euro. Guadagnato, esatto. Perchè non daranno neanche un tollino nè alla casa discografica, nè allo stampatore del cd e dell’artwork, nè al distributore. Tanto per intenderci, se avessero venduto 340.000 copie attraverso l’intermediazione di un’etichetta discografica e mediante la canonica distribuzione dei cd sugli scaffali dei negozi, a Yorke e soci sarebbero entrati in tasca circa 500.000 Euro. A conti fatti, un affare.

4) Confrontiamo le torte: il ricavo totale della vendita di 340.000 cd supera i 6 milioni di Euro. Quello dei download di “In rainbows”, come già detto, sta sotto al milione e mezzo. La torta è decisamente più piccola, quindi. E i Radiohead se la mangiano tutta perchè, con le attuali tecnologie, e con i mezzi finanziari a loro disposizione non hanno bisogno di anticipi per registrare, di supporti fisici per diffondere la loro musica e di qualcuno che gliela distribuisca. La risorsa scarsa – giustamente, aggiungerei – è la musica, più volgarmente il master. E quella ce l’hanno in mano Thom Yorke e soci. La band diventa un brand, una piccola impresa, e cessa di essere dipendente – in ogni senso in cui si può intendere questa parola – della casa discografica.

Una rivoluzione, quindi? Si, ma attenzione. Il vero dato rivoluzionario è che anche dandogli la possibilità di pagare quanto si vuole, la maggioranza delle persone non percepisce più la musica registrata come un bene a pagamento. L’unica fonte di guadagno possibile per vendere la musica pare essere quella di fare appello alla fede oltre la ragione dello zoccolo duro di fan. Finchè dura, ovviamente.

(dimenticavo: qui lo studio di comScore)





“Papà, posso farlo anch’io?”

5 11 2007

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Questo signore è Alan McGee. Altrimenti detto “nostro signore di Wonderwall”. Mammasantissima del brit pop, scopritore e produttore di Oasis, Jesus and Mary Chain, The Libertines, Hives e un altro centinaio di band da una stagione, consulente per i giovani e la musica del il governo Blair. Fatte le dovute proporzioni, una specie di Cecchetto d’oltremanica. Perchè parliamo di lui? Perchè è a casa di questo signore che si gioca il secondo tempo della rivoluzione della musica gratuita iniziata dai Radiohead. Le prossime a regalare le loro registrazioni saranno infatti due sue band. La prima sono i Charlatans, gruppo di Birmingham con nove album all’attivo, popolarità scarsa e tendenzialmente circoscritta tra i sudditi della regina. La seconda sono – of course – gli Oasis dei fratelli Gallagher, band dalla creatività al lumicino seduta su una montagna di 50 milioni di dischi venduti in tutto il mondo.

Sarà interessante. Perchè da quel che ne verrà fuori in termini di download, visibilità e  popolarità (parlare di vendite è ormai fuori luogo) si capiranno tante cose sul futuro di questa rivoluzione, o presunta tale. Se è solo per band affermate o anche per l’underground. Se funziona solo se non lo fa nessun altro o se funziona anche se lo fanno tutti. Se fa vendere più biglietti dei concerti o se è il caso di tornare ai cari vecchi scaffali e videoclip.

La sensazione di chi vi scrive è che, in un contesto in cui tutti ci provano, ad avvantaggiarsi siano più le band underground tipo i Charlatans che le star alla Oasis. E il motivo è semplice. Se il terreno della competizione si livella, se Oasis e Charlatans giocano ad armi pari, se l’ascoltatore – e non lo scaffale del Virgin Megastore – diventa il selettore tra la buona e la cattiva musica, se accade tutto questo, allora la piccola band ha tutto da guadagnare e la grande band tutto da perdere. Sempre che la piccola band riesca a differenziarsi, in mezzo all’oceano indistinto di piccole band che adotteranno, si suppone, la medesima strategia. E’ per questo, d’altra parte che servono i manager. Ed è per questo che, pur non sapendo come andrà a finire, se potessi scommettere che nel Nuovo Ordine Mondiale della Discografia gente come Alan McGee diventerà sempre più potente, beh…lo farei.